Quando tra due comproprietari di un immobile uno di essi, all’insaputa dell’altro, stipuli un contratto di locazione, la Corte di Cassazione ritiene che vi sia gestione di affari ex art. 2032 c.c. Secondo un primo orientamento (giudice di primo grado) la fattispecie in esame dovrebbe seguire le regole del mandato senza rappresentanza secondo il quale il proprietario di un immobile locato ad un terzo da un suo mandatario senza rappresentanza può, nel revocare il mandato, esercitare ex art. 1705 c.c., comma 2, ogni diritto di credito derivante dal rapporto negoziale ed essere legittimato ad agire in giudizio per la riscossione del canone, nonché a chiedere la risoluzione del contratto e il risarcimento dei danni nei confronti del terzo contraente. Dunque il comproprietario non locatore avrebbe diritto a chiedere al conduttore il pagamento dei canoni nonché ad esercitare azioni giudiziarie di risoluzione del contratto e risarcimento danni. Il secondo orientamento secondo il quale sugli immobili oggetto di comunione, in difetto di prova contraria, concorrono pari poteri gestori da parte di tutti i comproprietari, in virtù della presunzione che ognuno operi con il consenso degli altri. Da queste premesse consegue che ogni comproprietario è legittimato a stipulare il contratto ma anche ad agire per il rilascio dell’immobile comune, senza che sia necessaria la partecipazione degli altri condomini. Invece l’orientamento seguito dalla Corte d’Appello e poi dalla Corte di Cassazione reputa più corretto sussumere la fattispecie in questione nello schema della gestione d’affari nell’interesse comune. La locazione di una cosa comune da parte di uno dei due proprietari svolge pienamente i suoi effetti anche quando il locatore abbia violato i limiti dei poteri che gli spettano ex art. 1105 c.c., essendo sufficiente ai fini della stipula della locazione che abbia la disponibilità della cosa locata. Il contratto, ovviamente, non potrà produrre effetti diretti nei confronti di soggetti che non sono parti di esso, se non nei casi espressamente previsti dalla legge, pertanto, il comproprietario non locatore essendo terzo rispetto al contratto concluso, non potrà acquistare, come tale, la titolarità delle situazioni giuridiche attive e passive scaturenti dal contratto e non potrà vantare alcun diritto né opporre al terzo le violazioni del gestore; potrebbe al più ratificare l’operato del gestore ed esercitare solo la facoltà dell’esercizio del diritto di credito. Il conduttore è tenuto ad adempiere alle proprie obbligazioni solo nei confronti dell’originario locatore dal momento che il comproprietario non locatore è soggetto terzo rispetto al contratto stesso. Pertanto, fino a quando il comproprietario non locatore non ratificherà la gestione di affari, subentrando, quindi, nel contratto, lo stesso non potrà esigere il pagamento del canone nei confronti del conduttore. La soluzione accolta dalle Sezioni Unite appare quella più aderente al rispetto degli interessi di cui sono portatori i diversi soggetti. Da una parte, viene tutelato l’affidamento del terzo; il contratto di locazione rimane pienamente efficace nonostante la mancanza del consenso dell’altro comproprietario. L’opposizione del comproprietario non locatore, infatti, rileva solo se portata a conoscenza e manifestata prima della stipula del contratto ai sensi dell’art. 2031, co. 2, c.c.. In conclusione il principio di diritto affermato delle Sezioni Unite della Cassazione è: “La locazione della cosa comune da parte di uno dei comproprietari rientra nell’ambito di applicazione della gestione di affari ed è soggetta alle regole di tale istituto, tra le quali quella di cui all’art. 2032 c.c., sicché, nel caso di gestione non rappresentativa, il comproprietario non locatore potrà ratificare l’operato del gestore e, ai sensi dell’art. 1705 c.c., comma 2, applicabile per effetto del richiamo al mandato contenuto nel citato art. 2032 cod. civ., esigere dal conduttore, nel contraddittorio con il comproprietario locatore, la quota dei canoni corrispondente alla quota di proprietà indivisa” (Cassazione civile , SS.UU., sentenza 4 luglio 2012 n. 11135).